Salvatore Quasimodo – Banquet speech

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Salvatore Quasimodo’s speech at the Nobel Banquet at the City Hall in Stockholm, December 10, 1959

Ho sempre pensato al regno di Svezia come a una patria adottiva degli uomini che ricevono il Premio Nobel, cioè un riconoscimento unico e revente nella civiltà contemporanea. Nessun’altra nazione, infatti, è riuscita a proporre o a concretare un premio che fosse un paradigma della universalità e avesse in sé una carica spirituale e attiva come questo, sorto in un Paese di pochi milioni di uomini.

Il Nobel è un premio difficile e scatena le passioni degli uomini di ogni aggregato politico in tutte le nazioni: segno della sua inevitabile presenza e di quel vortice che lo scrittore o il poeta o il filosofo trova aperto davanti a sé. La cultura, però, ha sempre frantumato i tentativi ricorrenti della barbarie, anche quando questa era pesante di armi e ribolliva di confuse ideologie. Qui intorno a me sono i rappresentanti di una delle piú antiche civiltà del Nord, che con la sua dura storia si è trovata a lottare accanto a coloro che hanno deciso la misura delle possibili libertà dell’uomo, civiltà che ha dato re e regine umanisti, grandi poeti e scrittori. Questi poeti d’un tempo trascorso e i contemporanei sono ora conosciuti in Italia, anche se per zone rapide delle loro sentimento e delle loro inquiete problematiche. Da una allegorica presenza, in virtú delle memorie favolose dei Vichinghi, questi nomi difficili e musicali da pronunciare, sono entrati nel nostro luogo spirituale; ci dicono parole piú ferme di quelle di altre civiltà in decadenza o già nella polvere d’una retorica rinascimentale. II mio non è un elogio o delicata compiacenza, ma una critica al costume intellettuale dell’Europa, se affermo che la Svezia e il suo popolo, con la sua puntuale scelta sono stati e continuano a provocare e a modificare la cultura del mondo. Ho detto già una volta che il poeta, lo scrittore, contribuiscono a mutare il mondo; e può sembrare una verità condizionata o presunzione; ma basti pensare alle reazioni che il poeta suscita nelle società da cui nasce e altrove, per giustificare gli allarmi o le rese. Voi sapete che la poesia si rivela nella solitudine, e che dalla solitudine si muove verso tutti i meridiani; dal monologo arriva alla socialità, senza diventare sociale o politica. La poesia, anche lirica, è sempre un “discorso”. L’ascoltatore può essere l’interno fisico o metafisico del poeta, o un uomo o mille uomini. Il narcisismo del sentimento, invece, ritorna su se stesso come un cerchio, e per mezzo di allitterazioni o valori fonici ed evocativi ripete i miti di altri uomini nelle epoche smarrite della storia.

Oggi possiamo parlare di un neo-umanesimo in senso assoluto su questa terra che non ha paragone per l’uomo; e se il poeta si trova al centro di questa provvisoria costruzione fisica, che è anche la sua, consumata dall’intelligenza e dall’anima, è ancora un essere pericoloso? L’interrogativo non è segno di eloquenza, ma un’ellisse della verità. Il mondo sembra oggi ordinato sulla riva opposta della poesia; e, per esso, la presenza del poeta è un ostacolo da superare, un uomo da annientare. La forza della poesia, invece, scatta capillarmente in ogni direzione delle società costituite; e se il gioco letterario sfugge alle sensibilità di ogni razza umana, non cosí avviene della partecipazione poetica forte di umanesimo. Io ho sempre pensato che una mia poesia fosse scritta anche per gli uomini del Nord della terra, come per quelli del Continente Nero o del Levante. L’universalità della poesia è prima di ogni cosa nella determinazione formale, nello stile, diciamo (cioè la densa capacità della scrittura) ma è anche ció che un uomo – che non c’era prima – aggiunge per gli altri uomini del suo tempo. Questa universalità non si fonda su dei concetti, su una moralità pregiudiziale – peggio ancora se si pensi al moralismo – ma su una diretta concretezza e una posizione dello spirito che non si ripete.

La mia idea della bellezza non è rappresentata soltanto da armonie, ma anche da dissonanze, perché anche le dissonanze raggiungono l’esattezza di una forma. Pensiamo alla pittura o alla scultura o alla musica: i problemi estetici e morali e di critica sono identici, e simili le preferenze o le negazioni. La bellezza greca è stata messa in crisi dall’uomo contemporaneo, che nella devastazione delle forme ricerca un’altra forma che possa formare un’imitazione della vita, imitazione che svolge lo stesso processo della natura. Dico del poeta, di questa singolare imperfezione della natura, che si crea a poco a poco una esistenza reale col linguaggio degli uomini, un linguaggio, però, di sintassi difesa e non illusoria. Un’esperienza di vita (nel sentimento e nell’oggetto) trascina sempre con sé, all’inizio, una dispersione morale inconsueta, uno squilibrio dell’anima, seppure lento, e un timore di continuare una condizione spirituale già caduta al confronto della storia. Il poeta, per il letterato e il critico provvisorio, scrive sempre diari falsi, gioca con una teologia terrestre. Anzi, è certo, questo critico scriverà che quelle poesie – cosí si travolge la storia delle forme – non sono che meditate rielaborazioni d’un’ars nova; di quell’arte, cioè, di quel nuovo linguaggio che non esisteva prima di quelle poesie. Forse è un modo, questo, di rendere accettabile la solitudine, di enumerare i piú freddi oggetti che la chiudono. Influenze maligne, forse; perché nessuno avrà il potere di popolare il silenzio di uomini che leggano anche una sola poesia d’un poeta nuovo, e, meno di chiunque, il critico fragile, che teme vera una sequenza di quindici, venti versi. L’indagine sulla purezza è ancora da fare in questo secolo di divisioni in apparenza politiche, dove confusa e disumana è la sorte del poeta. Gli ultimi rapsodi sono guardati con sospetto per le loro scienze del cuore.

Ho parlato qui non per costituire una poetica o determinare delle misure estetiche, ma per salutare una terra nei suoi uomini piú fermi e preziosi per la nostra civiltà, della patria adottiva di cui ho detto prima. Io mi trovo ora in questa patria.

Saluto e ringrazio profundamente le Loro Maestà il Re e la Regina di Svezia, le Loro Altezze Reali e l’Accademia Svedese. I suoi diciotto membri, saggi e intransigenti giudici, premiando la mia poesia, hanno voluto onorare l’Italia, ricchissima in questo primo cinquantennio del secolo, fino alle nuove generazioni, di opere letterarie, artistiche e di pensiero, fondamentali per la nostra civiltà.

From Les Prix Nobel en 1959, Editor Göran Liljestrand, [Nobel Foundation], Stockholm, 1960


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To cite this section
MLA style: Salvatore Quasimodo – Banquet speech. NobelPrize.org. Nobel Prize Outreach AB 2024. Thu. 21 Nov 2024. <https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1959/quasimodo/25677-banquet-speech-italian/>

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